Ordinanza n. 123 del 2008

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ORDINANZA N. 123

ANNO 2008

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai Signori:

- Franco                                 BILE                                Presidente

- Giovanni Maria                      FLICK                               Giudice

- Francesco                             AMIRANTE                             "

- Ugo                                     DE SIERVO                             "

- Paolo                                   MADDALENA                         "

- Alfio                                    FINOCCHIARO                       "

- Alfonso                                QUARANTA                            "

- Franco                                 GALLO                                   "

- Gaetano                               SILVESTRI                              "

- Sabino                                 CASSESE                                "

- Maria Rita                            SAULLE                                  "

- Giuseppe                              TESAURO                                "

- Paolo Maria                          NAPOLITANO                         "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 231, 232 e 233, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2006), promosso con ordinanze del 18 e 17 gennaio 2007 dalla Corte dei conti, Sezione giurisdizionale d’appello per la Regione Siciliana, sui ricorsi proposti da Maggio Paolo e da Di Stefano Nunzio, iscritte ai numeri 524 e 525 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell’anno 2007.

Udito nella camera di consiglio del 12 marzo 2008 il Giudice relatore Paolo Maddalena.

Ritenuto che con due ordinanze di identico tenore depositate in data 18 gennaio 2007 (reg. ord. n. 524 del 2007) e in data 17 gennaio 2007 (reg. ord. n. 525 del 2007), la Corte dei conti, Sezione giurisdizionale d’appello per la Regione Siciliana, nel corso di altrettanti giudizi di responsabilità amministrativa nei quali gli interessati, condannati in primo grado, avevano chiesto di potersi avvalere del meccanismo di definizione agevolata del procedimento introdotto dall’art. 1, commi 231, 232 e 233, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2006), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 97, 101, 103 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dei commi 231, 232 e 233 del citato art. 1;

che l’art. 1, comma 231, della legge n. 266 del 2005 prevede che «Con riferimento alle sentenze di primo grado pronunciate nei giudizi di responsabilità dinanzi alla Corte dei conti per fatti commessi antecedentemente alla data di entrata in vigore della presente legge, i soggetti nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di condanna possono chiedere alla competente sezione di appello, in sede di impugnazione, che il procedimento venga definito mediante il pagamento di una somma non inferiore al 10 per cento e non superiore al 20 per cento del danno quantificato nella sentenza»;

che il successivo comma 232 aggiunge che «La sezione di appello, con decreto in camera di consiglio, sentito il procuratore competente, delibera in merito alla richiesta e, in caso di accoglimento, determina la somma dovuta in misura non superiore al 30 per cento del danno quantificato nella sentenza di primo grado, stabilendo il termine per il versamento»;

che il comma 233 dispone che «Il giudizio di appello si intende definito a decorrere dalla data di deposito della ricevuta di versamento presso la segreteria della sezione di appello»;

che il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale del sistema introdotto dalle norme censurate, di definizione in appello dei giudizi di responsabilità amministrativa mediante il pagamento di una somma non superiore al trenta per cento del danno quantificato nella sentenza di primo grado;

che, ad avviso della Corte rimettente, le norme censurate sarebbero caratterizzate da una indeterminatezza assoluta circa lo scopo perseguito dal legislatore, tale da precludere definitivamente la ricerca di una qualsiasi ratio normativa che non sia quella – puramente e semplicemente – della limitazione del risarcimento patrimoniale del soggetto condannato in primo grado; con la conseguenza che esse, dando luogo unicamente ad un effetto premiale ingiustificato, si paleserebbero come una negazione illogica e ingiustificata dei princìpi del buon andamento e del controllo contabile;

che, a differenza dell’istituto del cosiddetto condono fiscale nel procedimento dinanzi alle commissioni tributarie, e dell’applicazione della pena su richiesta delle parti nel procedimento penale, le norme sottoposte a scrutinio di costituzionalità non inciderebbero minimamente (in senso riduttivo) sull’entità del contenzioso contabile, essendo destinate ad operare esclusivamente in sede di appello, nel cui àmbito il sostituire una pubblica udienza con una camera di consiglio e una sentenza con un decreto sarebbe di scarso significato;

che, d’altra parte, le norme stesse, determinando una minore entrata (fra il novanta ed il settanta per cento del danno quantificato nella sentenza di primo grado), si risolverebbero in un irrazionale e incongruo “effetto premiale”;

che le norme denunciate contrasterebbero anche con il principio del libero convincimento del giudice (art. 101 Cost.), giacché non offrirebbero alcun criterio di orientamento per il giudice contabile;

che il principio di eguaglianza sarebbe violato anche perché la normativa censurata sarebbe applicabile soltanto ai soggetti nei cui confronti sia stata pronunciata in primo grado sentenza di condanna, con la conseguenza che essa, irragionevolmente, sarebbe inapplicabile ai soggetti che, assolti in primo grado, vedano tale sentenza riformata in appello, a séguito di gravame interposto dal pubblico ministero;

che, secondo il giudice rimettente, sarebbe irrazionale una previsione legislativa che escluda dal beneficio della definizione agevolata quei soggetti la cui posizione – dopo la sentenza di primo grado – appare chiaramente meno “pesante” di quella dei convenuti condannati; né si potrebbe pervenire ad una interpretazione adeguatrice: «non solo perché, in tale caso, dovrebbe superarsi la “lettera” della “condanna” in primo grado, ma anche perché si dovrebbe “creare” il criterio al quale correlare le percentuali» del dieci, del venti o del trenta per cento previste dalla legge;

che sarebbe violato, inoltre, l’art. 24, secondo comma, della Costituzione, perché il pubblico ministero presso la Corte dei conti viene evocato nel solo comma 232 e soltanto per essere sentito in camera di consiglio quando la Sezione di appello deve deliberare in merito alla richiesta di definizione agevolata: infatti, «per tale funzione, limitata e marginale (che si sostanzia nell’espressione di un “parere”), del pubblico ministero, il procedimento regolato dai commi 231-233 dell’art. 1 della legge n. 266 del 2005 non assume, sostanzialmente, carattere bilaterale, per cui la funzione di “parte” del pubblico ministero contabile (nell’ottica – anche del “giusto processo” – dell’art. 111 Cost.) viene, nella specie, quasi pretermessa (con la conseguenza – fra l’altro – che, in tal modo, vengono pesantemente compressi i diritti e gli interessi della pubblica amministrazione, dei quali il pubblico ministero è chiaramente portatore, in uno all’interesse generale dell’Ordinamento)».

Considerato che le questioni sollevate dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale d’appello per la Regione Siciliana, investono le norme sulla definizione in appello dei giudizi di responsabilità amministrativa dinanzi alla Corte dei conti, introdotte dall’art. 1, commi 231, 232 e 233, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2006);

che, secondo le ordinanze di rimessione, le norme denunciate violerebbero gli artt. 3, 97 e 103 della Costituzione, perché sarebbero ancorate all’unica ratio di limitare il risarcimento patrimoniale dovuto dal soggetto condannato in primo grado e determinerebbero perciò un effetto premiale ingiustificato, con conseguente negazione, illogica e ingiustificata, dei princípi del buon andamento e del controllo contabile; inoltre, in contrasto con l’art. 101 della Costituzione, le norme stesse inciderebbero sul principio del libero convincimento del giudice, non prevedendo alcun criterio di orientamento per il giudice contabile, laddove nel sistema positivo vigente l’attenuazione della responsabilità amministrativa, nei singoli casi, è rimessa al potere riduttivo di tale giudice che, a tal fine, può tenere conto del comportamento e del livello di responsabilità, nonché delle capacità economiche del soggetto responsabile;

che le ordinanze di rimessione denunciano la violazione, ancora, dell’art. 3 della Costituzione, sotto il profilo del principio di eguaglianza, perché le norme censurate sarebbero applicabili soltanto ai soggetti nei cui confronti sia stata pronunciata in primo grado sentenza di condanna, e non anche, irragionevolmente, ai soggetti nei cui confronti la sentenza di assoluzione in primo grado sia stata riformata, in appello, a séguito di gravame interposto dal pubblico ministero;

che viene dedotto, altresì, il contrasto delle norme censurate con gli artt. 24 e 111 della Costituzione, perché al pubblico ministero contabile sarebbe assegnata una funzione, limitata e marginale, di carattere consultivo;

che, considerata l’identità delle questioni prospettate, i giudizi possono essere riuniti, per essere esaminati congiuntamente e decisi con unica pronuncia;

che, successivamente all’emanazione delle ordinanze di rimessione, questioni identiche sono state decise con la sentenza n. 183 del 2007 e con l’ordinanza n. 392 del 2007;

che, come la Corte ha già statuito, le norme censurate non producono alcun ingiustificato ed automatico effetto premiale, in quanto l’operatività delle disposizioni denunciate presuppone una valutazione di merito, da parte del giudice contabile, sul fatto che l’esigenza di giustizia possa ritenersi soddisfatta a mezzo della procedura accelerata, sicché alla definizione in appello non può accedersi in presenza di dolo del condannato o di particolare gravità della condotta;

che, inoltre, le norme denunciate vanno collocate nell’àmbito del sistema tradizionale della responsabilità amministrativa, in cui al giudice è affidato il compito di determinare e costituire il debito risarcitorio, stabilendo quanta parte del danno prodotto deve ritenersi risarcibile in relazione all’intensità della colpa del responsabile, da individuare in relazione a tutte le circostanze di fatto in cui si è svolta l’azione produttiva del danno; e, muovendosi all’interno del perimetro di tale discrezionalità decisionale, esse consentono l’accoglimento dell’istanza di definizione in appello solo se il giudice – avuto riguardo ai criteri in base ai quali egli forma la propria decisione – ritenga congrua una condanna entro il limite del trenta per cento del danno addebitato al responsabile nella sentenza di primo grado;

che, pertanto, muovendo da un erroneo presupposto interpretativo, devono essere dichiarate manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 231, 232 e 233, della legge 23 dicembre 2005, n. 266, sollevate in riferimento agli artt. 3, 97, 101 e 103 della Costituzione;

che manifestamente inammissibili, per difetto di rilevanza, sono le questioni di legittimità costituzionale sollevate, ancora in riferimento all’art. 3 della Costituzione, sotto il profilo del principio di eguaglianza, sul rilievo che le norme censurate sarebbero applicabili soltanto ai soggetti nei cui confronti sia stata pronunciata in primo grado sentenza di condanna, e non anche, irragionevolmente, ai soggetti nei cui confronti la sentenza di assoluzione in primo grado sia stata riformata, in appello, a séguito di gravame interposto dal pubblico ministero: difatti, nei giudizi a quibus, tutti i convenuti sono stati condannati in primo grado;

che del pari manifestamente inammissibili sono le questioni di legittimità costituzionale concernenti la limitazione dei poteri del pubblico ministero contabile, giacché tali questioni sono state sollevate senza una previa verifica delle soluzioni interpretative ipotizzabili, non avendo i rimettenti verificato se il procedimento in camera di consiglio, applicabile nella specie, consenta o meno la partecipazione di tutte le parti ovvero se in detto procedimento il giudice si debba limitare ad un vaglio dell’istanza scritta e del parere scritto del pubblico ministero.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti in giudizi,

1) dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 231, 232 e 233, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2006), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 97, 101 e 103 della Costituzione, dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale d’appello per la Regione Siciliana, con le ordinanze indicate in epigrafe;

         2) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 231, 232 e 233, della stessa legge n. 266 del 2005, sollevate, in riferimento agli artt. 3, sotto altro profilo, 24 e 111 della Costituzione, dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale d'appello per la Regione Siciliana, con le ordinanze indicate in epigrafe.

         Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 aprile 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Paolo MADDALENA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 30 aprile 2008.